Dove passa Leone Magno non cresce più Attila. Di Gianfranco Ravasi

Un incubo notturno attraversa l’anima di Attila: sulla via che lo porterà a Roma si erge un vecchio ieratico che gli sbarra il passo. Egli, però, cerca di esorcizzare questa visione angosciosa e si prepara all’attacco. Ma ecco, si leva un inno e un corteo avanza: ad aprirlo è proprio quel vecchio del sogno, il papa Leone Magno, e dietro a lui si profilano due giganti, gli apostoli Pietro e Paolo, che scortano il pontefice e i cristiani. Il «Flagello di Dio» atterrito si prostra nella polvere davanti a quel vecchio, lasciando attoniti gli Unni. Questa scena, come è noto, suggella il primo atto dell’ Attila verdiano, e idealmente evoca l’impressionante affresco che Raffaello ha dipinto nelle Stanze Vaticane: Leone su un destriero bianco sfida Attila sullo sfondo della Roma imperiale, sotto un cielo tempestoso squarciato da folgori e dall’epifania maestosa dei santi Pietro e Paolo. […]

In realtà, l’evento fu meno «epifanico», ma non per questo meno rilevante. Il biografo contemporaneo di Leone, Prospero di Aquitania, nel suo Chronicon presenta così quell’incontro: «Leone intraprese quella missione confidandonell’aiuto di Dio, sapendo che egli non viene mai meno nelle difficoltà dei suoi fedeli. La sua fede non fu smentita. Attila ricevette la legazione con grande dignità e si rallegrò talmente della presenza del Sommo Pontefice da decidersi a rinunciare alla guerra e a ritirarsi al di là del Danubio, dopo aver promesso la pace».

Era l’anno 452. Gli Unni, pastori trasformati in feroci guerrieri sotto la guida di Attila, dopo aver premuto sull’Impero d’Oriente avevano deciso di dilagare in Occidente, puntando sull’Italia, ove, dopo aver distrutto Aquileia, si indirizzarono verso Roma. Fu allora che l’imperatore d’Occidente Valentiniano III decise di ricorrere al negoziato e inviò una delegazione presieduta appunto dal papa Leone. Il contatto avvenne sulle sponde del Mincio, non lontano da Mantova. Attila optò a sorpresa per l’abbandono di quel grandioso progetto militare e politico e lo fece probabilmente per ragioni strategiche realistiche. Ma l’eco che ne seguì avvolse Leone in un’aureola gloriosa, anche se dalle 173 lettere del suo epistolario (di esse 30 sono, però, missive a lui indirizzate) non traspare nessun cenno autocelebrativo. Anzi, in una lettera dell’11 marzo 453 a Giuliano di Chio evoca solo «i mali che Dio ha permesso o voluto che noi soffrissimo».

Ed effettivamente il suo pontificato, uno dei più lunghi della storia della Chiesa, perché durato dal 440 al 461, fu il crocevia di vicende ecclesiali e politiche piuttosto drammatiche e decisive. Ne sono testimoni non soltanto le sue lettere, ma anche i 98 (o 96, secondo altri critici) sermoni di straordinario spessore teologico e storico. Uno studioso, Francesco Di Capua, osserva che «nessun personaggio, forse, del V secolo ebbe, come Leone, piena consapevolezza che la potenza politica e militare della Roma imperiale volgeva inesorabilmente al tramonto, ma nello stesso tempo nessuno ebbe come questo Papa incrollabile la fiducia e netta la visione che la nuova Roma sorgeva, il cui impero sarebbe stato molto più vasto e glorioso di quello antico. La nuova Roma cristiana, fondata sugli apostoli Pietro e Paolo, prendeva per volere divino il posto dell’antica Roma pagana, fondata su Romolo e Remo». Proprio per questi due profili gli interpreti della figura di Leone Magno, morto il 10 novembre 461, data che divenne la sua festa liturgica, ne hanno disegnato un ritratto maestoso ma complesso.

Essendo vissuto sul crinale delicato tra l’antica romanità e la nuova cristianità, molti hanno marcato il fatto che i suoi piedi erano ben piantati nel passato. Adalbert F. Hamman non ha avuto esitazione a definirlo come l’«ultimo testimone dell’età patristica e della Chiesa antica». Ancor più esplicito Pierre Batiffol, che lo ha considerato «un Papa del vecchio mondo, anche se la Chiesa antica non ne ha conosciuto uno né più completo, né più grande». E più sistematico nel dimostrare questa collocazione è stato Erich Caspar. Basil Studer, invece, ha voluto superare questa concezione che vede Leone come l’erede e il sigillo di un’epoca. Egli appare piuttosto come colui che muove i primi passi lungo un nuovo versante che si allarga sino all’Oriente, e «la pace cristiana e romana» che egli vede sbocciare ha le sue radici nella collaborazione tra sacerdotium eimperium , nei quali egli intuisce la presenza vitale ed efficace di Cristo. […]

Molti altri furono i profili di questo Pontefice, in particolare quelli molto tortuosi riguardanti i contrasti teologici. Famoso è il Tomus , ossia l’ampia trattazione sull’incarnazione di Cristo, che egli inviò al patriarca di Costantinopoli, Flaviano, nel 449, un vero e proprio punto fermo nelle incandescenti controversie cristologiche di quel periodo. Ma nel nostro ritratto leoniano molto semplificato vorremmo riservare un cenno finale solo a un altro evento parallelo, dall’esito però differente rispetto alla scena da cui siamo partiti, cioè l’incontro con Attila.